La band di Hansi Kürsch rispolvera un po’ le sonorità del passato evitando con maestria una improbabile operazione nostalgia

Sempre più sinfoniche e magniloquenti, le ultime opere dei Blind Guardian sono state caratterizzate da una composizione volta a riff astrusi, orchestrazioni e atmosfere sempre più arzigogolate, forse per nascondere una ispirazione più fiacca del solito. Fatta eccezione per “Legacy of The Dark Lands”, progetto nato proprio per essere un’opera sinfonica (più che discreta), “Beyon The Red Mirror” aveva sì delle perle di rara bellezza (“Twilight of The Gods”), ma peccava di eccessiva opulenza.

È bene ricordare che delle volte inserire tanti elementi tutti assieme non equivale allo sfogare e sviluppare altrettante numerose idee, ma coprire di una bella quanto fragile coperta delle crepe all’interno della band stessa (non tanto contrasti, ma per lo più stanchezza mentale e creativa). Per questo motivo “The God Machine” può essere accolto come una sorta di restart per i bardi.

Io quel coso inquietante e quella lancia l’ho già visti…

Cominciamo dalla copertina: i più nerd noteranno enormi richiami a Neon Genesis Evangelion, con un demone-angelo che impugna una lancia di longinus (la lancia che nella mitologia cristiana avrebbe ferito Cristo sul costato mentre era crocefisso) e un paesaggio dalle nubi grigie e vegetazione che assume tonalità rossastre.

Sembra una sciocchezza, ma dal punto di vista stilistico, concettuale e cromatico è un unicum nella iconografia dei Blind Guardian. A maggior ragione sin da qui si percepisce una ripartenza della band da nuove basi che hanno pur sempre gli elementi fondanti del passato più puro del quintetto teutonico.

Il disco

Hansi ha dichiarato che, fosse stato per lui, “The God Machine” avrebbe avuto un sound ancora più pesante e veloce, ma gli altri membri del gruppo lo hanno mitigato. Non poteva essere, questa, scelta più felice.

“The God Machine” scorre via che è una bellezza, accogliendo l’ascoltatore con “Deliver Us From Evil” e i suoi stilemi che richiamano i lavori pre-2010, fino ad arrivare a “Secrets Of The American Gods” che mostra un equilibrio perfetto tra orchestrazioni e distorsioni. Nota di merito per “Violent Shadow”, il brano più feroce del disco e che esaspera lo stile dei Blind Guardian, mantenendo quel controllo sul mostro imbizzarrito come ai tempi di “Valhalla” o “Mirror Mirror”. L’unico momento di apparente calma è dato da “Let It Be No More”, momento epico e d’atmosfera, a tratti toccante (il brano è stato scritto dal cantante Hansi Kürsch dedicandolo alla madre recentemente scomparsa).

Non ci sono scivoloni incredibili, solo momenti godibili ma che sfiorano il delicato “more-of-the-same” (“Blood Of The Elves”) o che sono un po’ più scollegate dal resto dell’album dal punto di vista di scelte stilistiche (“Life Beyond The Spheres”). Parliamo comunque di momenti solo leggermente sotto la media di un disco qualitativamente ben realizzato e che difficilmente stanca ascolto dopo ascolto.

Verdetto: “I will return”

Se non un album di redenzione, “The God Machine” sancisce la ripresa delle redini della bestia che i Blind Guardian hanno creato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso: non si dimenticano le origini, non si ricoprono più di orpelli barocchi e roccoccò, ma si modernizza e attualizza una formula che ancora funziona e ancora ha tanto da dire.

Potremmo persino consigliarlo a chi voglia approcciarsi alla band per la prima volta (affiancandolo a “Nightfall In Middle Earth”, ovviamente).

a cura di
Andrea Mariano

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