“Dimmi che va tutto bene”: il racconto de Il Sistema di Mel

Dimmi che va tutto bene è il nuovo album de Il Sistema di Mel. Una nuova normalità raccontata attraverso il post-rock e il post-pandemico

Il Sistema di Mel è una band bresciana composta da “quattro amici che suonano insieme per sfuggire alla noia della provincia. Sono fortemente ispirati da tutta l’ondata emocore /post hardcore ‘90 e ‘00. Fondono le loro influenze in melodie emotive che sfociano in modo corale in trascinanti crescendo densi di tensione.”

Il sistema di Mel è composto da: Federico Mingardi (voce, chitarra), Paolo Bosio (chitarra), Simone Mazzenga (basso, cori) e Francesco Alberti (batteria).

La loro musica ha un richiamo compositivo verso i Mineral, The Hotelier, Taking back sunday, Foxing, Sunny Day Real Estate. Tutte band da cui traggono ispirazione. Le sonorità infatti si trovano in un limbo. Da una parte l’evanescenza, effetto di un turbamento emotivo, e dall’altra la forza lirica che cerca di emergere dai suoni del basso.

La voce di Federico Mingardi ha un tono fievole e pacato, che però nelle prese di coscienza verso l’intento di diffondere un messaggio, viene fuori senza indugi e paure. 

Dimmi che va tutto bene è l’album che Il Sistema di Mel utilizza per veicolare un senso di inadeguatezza sociale. Uno stato inconscio che fa parte di tutti noi ed emerge nelle relazioni, che alla fine si fermano a metà della perenne intenzione di superare un trauma.

Le vicissitudini degli ultimi anni causati dalla pandemia, ci collocano in un sentire collettivo che da tempo vaneggiava tra i nostri scambi interpersonali.

Ed è proprio in questo tempo che Il Sistema di Mel inizia il suo progetto a distanza, tra videochiamate e scambi di produzioni.

L’idea è quella di un cammino attraverso il racconto. Un racconto che non muore con la parola “fine”, ma è l’occasione di recuperare per focalizzarsi sui punti fermi della vita. A partire da noi, diventano i legami sinceri che ci portiamo dietro.

Il suono nel disco rappresenta proprio tutte queste debolezze che sporcano dentro, fino a fuoriuscire in un grido specchiato del malessere.

Rispetto al precedente album Addosso, progetto che metteva in primo piano i tormenti della mente umana ben amalgamati a melodie post-rock e con una voce più cruda, in questo nuovo esperimento le melodie vocali si intersecano con difficoltà fra quelle sonore. Gli strumenti si mescolano fra di loro e il ritmo diventa indipendente. Il testo così assume una funzione di storytelling del disagio e non il classico sovrastare.

Per questo, nell’intento di essere diretti, la band ha deciso di adottare una produzione più lo-fi, mantenendo una verità che non viene meno nei live.

L’incipit del disco paradossalmente ne conclude la narrazione: “Tornare a casa” è un lieto fine sudato e sofferto che ci permette di incontrare di nuovo gli altri senza paure. “Sottosopra” utilizza una citazione a Stranger Things per parlare del ghosting e dei luoghi bui in cui può catapultarci. “Distanti” è il lento romantico del disco fra costruzioni mentali, desideri nascosti e la nostalgia di quella volta in cui si è rimasti senza soldi per riparare l’auto rotta.

Frammenti” e “Un’altra volta”, più o meno centrali nella tracklist, sono il cuore della crisi e parlano rispettivamente di una persona spossata da una quotidianità senza affetto che arriva a volersi togliere la vita e della solitudine che si prova quando si è circondati da una folla ma manca l’unica persona che si attendeva.

Pigiama” è un intermezzo acustico che didascalicamente parla di isolamenti che possono portare a stati depressivi. Poi concludono con l’impatto imponente e strumentale di “Chamel N.5”, una canzone post-rock con cui la band ci abbraccia e si congeda in un ultimo sfogo.

Il graffio è visibile. L’intento ancora di più.

a cura di
Rebecca Puliti

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