Jethro Tull – Teatro EuropAuditorium, Bologna – 14 febbraio 2023

In attesa dell’uscita di “RökFlöte” (il nuovo album è atteso per aprile), Ian Anderson approda a Bologna in un auditorium pieno, ripercorrendo alcuni capisaldi della carriera dei Jethro Tull

A una prima occhiata l’EuropAuditorium di Bologna pare brulicante solo di più che rodati appassionati di vecchia data dei Jethro Tull. Invece, mentre cerchiamo il posto assegnatoci, notiamo che a cercare, trovare e occupare i sedili della platea e della balconata sono persone di varia estrazione anagrafica. Sorprende (e rincuora) la presenza di giovani, seppur sparuti. C’è speranza nel mondo? Sì, l’importante è che, oltre alla grande curiosità verso i mostri sacri, ne abbiano altrettanta nei confronti delle nuove leve. Ma andiamo avanti.

Press play to start

Alle ore 21:00 spaccate l’EuropAuditorium di Bologna, gremito per l’occasione, accoglie i redivivi Jethro Tull di Ian Anderson. O meglio, l’ultima reincarnazione della band britannica, dato che l’unico componente della formazione britannica originale è proprio il frontman, vocalist, flautista, compositore principale.

Si accendono le luci sul palco e compaiono i musicisti che intonano “Nothing Is Easy”. Il gioco crudele del destino ci porta dinanzi un Ian Anderson carico, motivato, funambolo del flauto nonostante non sia più un ragazzino… ma con evidenti problemi alla voce.

Inizialmente pensiamo ai soliti sbalzi di volume di un microfono non ancora settato perfettamente, ma è solo un tentativo illogico di trovare una scusa: tutti gli strumenti sono equalizzati al microdecibel. È Anderson che cerca di gestire una corsa tra le parole e una scalata verso le note più alte più difficoltosa del previsto.

“Oddio, è stato un disastro”. No, calmi. Dal punto di vista dell’esecuzione strumentale ci troviamo davanti a dei mostri: “Cross-Eyed Mary”, “Sweet Dreams”, “Clasp”, “Mine Is The Mountain” sono alcuni degli esempi di alta classe e professionalità, tra sound e note sprigionate dalle mani di Joe Parrish (chitarra), David Goodier (basso), John O’Hara (tastiere) e Scott Hammond (batteria).

La divisione della serata in due atti, probabilmente, è stata pensata anche in funzione di non affaticare Anderson e a centellinare le energie. Scelta saggia, anche per il pubblico, che in quel quarto d’ora di pausa ricarica le energie ed ha l’attenzione necessaria per godersi il resto del concerto.

Anacronismo funzionale

Un tuffo nel tempo, una bracciata ora negli anni’70, ora nel decennio in essere, ma sempre con una costante: no foto, no filmati. Un messaggio anacronistico, questo, lanciato sia prima del concerto, sia durante, con gli occhi infastiditi di un Ian Anderson che fissa e fulmina il colpevole in prima fila.

Porta in buona parte i suoi frutti, perché così la platea è davvero concentrata su ciò che sta avvenendo sul palco. La gentile concessione di utilizzare i propri dispositivi tecnologici in tal senso è data negli ultimi dieci minuti, durante il bis con “Locomotive Breath”.

Della serie: “Siamo rimasti concentrati per quasi due ore, ora se sbagliamo sarà colpa vostra ma non ce ne frega nulla”.

Fotografie sonore restaurate

Le già accennate difficoltà canore di Ian Anderson (comunque gestite con professionalità ed esperienza) e una batteria attenta, precisa, ma di poco impatto sono forse gli unici veri nei di una serata all’insegna di una rivitalizzazione di grandi classici del passato e di nuove composizioni che, sì, sono molto diverse da quelle di cinquant’anni fa, ma oltre a essere naturale e scontato, è anche dettato dal nuovo modo di lavorare di Ian Anderson: prima entrava in studio e aspettava l’ispirazione, ora si pone ogni giorno la sfida di scrivere qualcosa:

 “Un tempo aspettavo che le idee arrivassero, oggi lo tratto come un vero e proprio lavoro. È una sfida: mi alzo la mattina e mi metto a lavorare come se fossi in ufficio. Una volta attendevo, ora è un processo attivo”

Da un’intervista per Rolling Stone

Questi tour sono l’occasione di restaurare opere passate per darle in pasto non tanto ai veterani, quanto a chi quei tempi, per questioni anagrafiche o altro, non ha potuto assaporarli. I restauri non sempre riescono a riparare tutto al 100% (la voce), ma fin quando la maggior parte della struttura rimane in piedi in maniera dignitosa e decorosa, rimane interessante ammirare le opere, fin quando si potrà.

Scaletta
  1. Nothing Is Easy
  2. Cross-Eyed Mary
  3. With You There to Help Me
  4. Sweet Dream
  5. We Used to Know
  6. Wicked Windows
  7. Holly Herald
  8. Clasp
  9. Mine Is the Mountain
  10. Bourrée
    Set 2
  11. Heavy Horses
  12. The Zealot Gene
  13. Warm Sporran
  14. Mrs Tibbets
  15. Dark Ages
  16. Aqualung
    Encore
  17. Locomotive Breath
  18. The Dambusters March

a cura di
Andrea Mariano

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