Visconti: “Battesimo Oscuro” è un rito di passaggio

Visconti è al suo quinto singolo, Battesimo Oscuro, l’ultimo che anticipa l’album di metà ottobre.

In questa intervista, esploreremo il viaggio che l’ha portato a confrontarsi con il tema dell’oscuro e come questo abbia influenzato la sua musica.

Parleremo con lui anche dell’evoluzione nel suo approccio alla produzione, il modo in cui le esperienze personali si intrecciano col suo lavoro e il suo posizionamento all’interno della rinascita post-punk contemporanea.

 “Battesimo Oscuro”, il tuo nuovo singolo che anticipa l’album di ottobre, rappresenta una fase intensa e di cambiamento nel tuo percorso. Cosa ti ha spinto a esplorare un immaginario così profondamente oscuro per raccontare questo passaggio emozionale?

Fin da piccolo ho sempre avuto un feticcio nei confronti di tutto ciò che mi spaventava. Ero terrorizzato all’idea di leggere “Piccoli Brividi”, eppure passavo decine di minuti di fronte alla vetrina della libreria per studiarne le copertine e i simboli, immaginando le storie senza confini raccontate al loro interno.

Credo di conservare gli strascichi di questo rapporto con la paura ancora adesso che sono grande, e “Battesimo Oscuro” è un po’ un manifesto di cose brutte e spiacevoli con cui bisogna fare i conti, una sorta di rito di passaggio.

Ugualmente catturare aspetti violenti e spiacevoli della realtà all’interno delle canzoni per me è una forma di esorcismo, raccontarli iconograficamente per disarmarli e accettarli come in questo brano.

Nel sound, mescoli elementi post-punk e shoegaze con campionature inaspettate. Come si è evoluto il tuo approccio alla produzione rispetto al tuo primo album “DPCM”?

Il sound di “Boy di Ferro” è il risultato del mio trasferimento in un appartamento a Milano. Ho dovuto fare i conti con l’impossibilità di lavorare ad alti volumi, registrando anche solo le chitarre da un amplificatore. Questo ha influenzato molto la mia scrittura e la ricerca di quello che potesse essere il sound giusto: ho così privilegiato chitarre saturate in linea e il layering dei campioni di batteria. Tutto ciò ha poi rappresentato anche una presa di posizione, da un certo punto in avanti, alla ricerca di qualcosa di inaspettato e che la collaborazione con Fight Pausa ha saputo finalizzare ottimamente. 

La narrazione del dolore e della perdita ricorre spesso nella tua musica, tematiche fondamentali che ritroveremo anche nell’album “Boy di ferro”: quali influenze artistiche o personali ti hanno guidato nella stesura di questo disco?

Ho iniziato a scrivere i brani in seguito a una rottura sentimentale, in qualche modo già consapevole che se avessi scritto un album così emotivo con i presupposti stilistici di “DPCM” avrei fatto uno scivolone verso la palude dell’indie cantautoriale italiano, che attualmente mi annoia e non sento così vicino alla mia scrittura.

Allora, ho deciso di convertire questo momento della mia vita in una ricerca di un qualcosa che riuscisse, soprattutto, a sublimare la rabbia e la psichedelia della rottura; che riuscisse a creare anche nel disagio e che rendesse la sperimentazione un meccanismo di unione e immedesimazione.

Artisticamente ho escluso la musica italiana dai miei ascolti per un lungo periodo per disintossicarmi sia dalla gerarchia preimpostata della melodia vocale sulla musica, sia dal sottotono radiofonico che sembra che tutto debba avere un minutaggio preciso; e ho intrapreso un percorso di raffinamento della mia espressività, magari risultando naif a volte, ma con la sicurezza di poter fotografare quello specifico momento di creazione tramite la mia musica.

Credi che il pubblico moderno possa rivedersi nella tua visione nichilista?

Mi piacerebbe avere una connotazione nichilista, ma di base non riesco ad esserlo. Pianto le unghie nei simboli e contrasto i sentimenti negativi con una forte automotivazione nei miei testi, perciò credo che il pubblico moderno possa entrare in contatto con la mia musica sicuramente tramite la mia ingenuità.

Hai aperto concerti per artisti come Verdena e Fine Before You Came, che hanno lasciato un segno nella scena post-punk e alternativa italiana. Ti senti parte di questa corrente musicale o preferisci non etichettarti necessariamente?

Sì, direi di sì, non sono un amante delle etichette, ma le utilizzo per identificare ogni cosa (ride ndr)

Magari non ha troppo senso parlare di generi musicali, ma credo di essere stato in primissimo luogo ispirato dall’attitudine degli artisti che hai nominato e in secondo luogo volenteroso di costruire una carriera musicale che somigli ai loro ritmi, fatti di tanti album che però segnano la volontà di ricerca e di crescita.

Nel panorama attuale, assistiamo a una nuova ondata di post-punk con artisti come Idles e Fontaines D.C. che riportano in auge il genere con un tocco moderno. Come ti collochi rispetto a questa rinascita e quali pensi siano gli elementi chiave del post-punk che continuano a ispirare le nuove generazioni di musicisti, incluso te stesso?

Quando sono usciti i primi Shame e Idles andavo in quarta liceo e per me erano stati una folgorazione, erano nuovi e contemporaneamente avevano tutti gli elementi della musica che avevo ascoltato fino a quel momento. Perciò sì, credo di essere soprattutto un fan di questa rinascita e credo sia una rinascita propriamente anglosassone e che già trasferendo questa corrente nel cantato in italiano i risultati sono completamente diversi e non associabili.

Di conseguenza, credo di condividerne la dichiarazione di intenti in quanto gli elementi chiave del post punk stanno nella profonda interazione geometrica tra gli strumenti e la continua decostruzione del genere e dei suoi limiti. E’ un parco giochi musicale infinito in grado di produrre sia musica di genere che esperimenti completamente disconnessi.

a cura di
Redazione

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