Abbiamo avuto il piacere di intervistare qui su Distorsioni sonore Eduardo Losada Cabruja, in arte proprio Cabruja, a cui abbiamo fatto alcune domande su di lui e sul nuovo album.

Il 5 novembre 2021 è uscito Cabruja, il primo album del cantautore venezuelano e genovese d’adozione Cabruja, con la partecipazione di Paolo Fresu nel brano Gloomy Sunday.

Cabruja
Chi è Cabruja?

Eduardo Losada Cabruja nasce a Caracas in Venezuela. Sin da bambino la musica rappresenta una costante della sua vita: muove i suoi primi “passi canori” all’interno del coro della scuola e in seguito partecipa a diverse rassegne, tra festival locali e produzioni, come ad esempio l’ottava sinfonia di Mahler, del 1988, insieme ad altre 1300 persone sul palco del Teatro Teresa Carreño.

Accanto alla passione per la musica, Eduardo coltiva anche quella per le scienze, laureandosi in biologia presso l’Universidad Simón Bolívar, a Caracas. Poi nel 2006 si trasferisce a Genova per un dottorato di ricerca in microbiologia molecolare.

Durante questo periodo entra a far parte del Coro dell’Università di Genova e, per via del suo lavoro come divulgatore scientifico al Festival della Scienza di Genova, nel 2008 Eduardo conosce altri scienziati-musicisti con cui forma una cover band acustica con la quale si esibisce regolarmente durante il Festival negli anni successivi e partecipa a diversi eventi in Liguria.

Attualmente Eduardo lavora come insegnante di scienze in lingua spagnola in un liceo linguistico genovese e nell’autunno del 2021, dopo due anni di lavoro a singhiozzo a causa della pandemia, è uscito il suo primo album da solista, sotto il nome d’arte Cabruja.

Ciao Eduardo, benvenuto su Distorsioni Sonore! Da anni ormai sei stato adottato dall’Italia, ma le tue radici sono lontane dal Paese. Quanto della tua giovinezza e del Venezuela ti porti dietro? Rappresenta una parte importante della tua produzione?

È una domanda curiosa, o forse è curiosa la risposta, perché io da sempre mi sono sentito molto esterofilo, ho sempre guardato un po’ altrove. Sono sempre stato incuriosito da altri paesaggi, culture, cibi e sonorità, andavo sempre oltre. Da piccolo parlavo sempre di andare via non perché volessi scappare, perché ero curioso di vedere altre cose. Ricordo, ad esempio, che avevo la fissa per la Grecia perché mi piaceva la mitologia greca, che l’avevo per l’Australia perché mi piacevano i canguri. Adesso che invece sono altrove rispetto al luogo da cui vengo guardo anche indietro, perché adesso l’altrove è la mia origine.

Mi porto dietro tante cose che secondo me sono inevitabili. Io sono nato e cresciuto in Venezuela, tutti i miei famigliari sono venezuelani e non ho avuto le influenze che avevano i miei compagni di scuola, che erano figli di portoghesi, italiani, spagnoli. Io sono proprio di Caracas. Questo ha un impatto a livello di produzione: questo disco è un mio biglietto da visita e si è portato dietro un sacco di cose, tutto quello che ho vissuto là e tutto quello che vivo ancora indirettamente.

C’è una canzone, Mi Querencia, che appartiene al folklore venezuelano. È di Simón Díaz, che è forse uno dei cantautori più importanti della musica tradizionale venezuelana. È inevitabile che abbia un impatto. Io sono quello che ho vissuto e ho vissuto in Venezuela, vengo dal Venezuela, dalla cultura venezuelana e da genitori venezuelani. Non posso e non mi interessa negarlo.

Il tuo primo singolo, che è anche la prima traccia dell’album e quindi, in un certo senso, l’inizio di tutto, è un omaggio a Tori Amos. In che modo ti ha influenzato nel corso della tua vita, musicale e non?

Guarda, io non mi considero un vero e proprio musicista. Io non suono. Canto ed interpreto ed è ovvio che abbia una sensibilità artistica su quello che voglio fare. Io voglio queste sonorità, voglio queste canzoni, io ho queste intenzioni.

È difficile dirlo con chiarezza. Io vivo molto la musica che ascolto, per me rappresenta emozioni e ricordi e la associo a eventi e sentimenti. Dal punto di vista musicale, quindi, se voglio evocare qualcosa c’è la canzone che mi permette di farlo.

Tori Amos è stata importante per me, perché la seguo e la adoro da quando sono adolescente. Anche i miei amici, che mi conoscono, sanno che se faccio un disco c’è una sua canzone, perché mi ha accompagnato fino ad adesso. È una passione che porto da sempre, ci deve essere. Poi, nello specifico, Father Lucifer è una canzone che stava bene con tutti gli altri brani a livello di temi e sonorità. L’ho proposta e Giancarlo Di Maria, che è l’adattatore, ha apprezzato. Ovviamente ci sono altre mille canzoni di Tori Amos che canterei, ho l’imbarazzo della scelta e questa comunque la ritengo azzeccata.

Parlando dei due inediti, Lisboa Tbilisi e La Corazonada, dai testi traspare un’atmosfera malinconica e nostalgica, a tratti quasi cupa. A cosa sono dovute queste sensazioni?

Sono due brani molto diversi, anche se ovviamente hanno punti di contatto. Il primo, Lisboa Tbilisi, è molto personale, mentre la corazonada parla di una situazione che viviamo in tanti.

Lisboa Tbilisi racconta di un viaggio dal Venezuela all’Italia, dallo spagnolo all’italiano e di un viaggio mio, dall’essere giovane all’esserlo meno, dall’avere poche esperienze ad averne avute molte che mi hanno segnato, che mi hanno portato lontano rispetto a quel che pensavo. La canzone dice non giudicare, tu non sai cosa abbiamo vissuto. Quella canzone è un dialogo con un me stesso del passato, quel me stesso che era pieno di aspettative, quello che mi sta guardando e che mi chiede se ho rispettato quel che avevo in mente per me.

La Corazonada invece è molto geografica, parla di Caracas e di vivere a Caracas. È una delle città più pericolose al mondo, con un altissimo tasso di criminalità. Io stesso ho conosciuto almeno sei persone che sono state uccise e non vivo nella criminalità. Parla di quello e di come sia vivere con la paura, di andare per strada col presentimento che quello potrebbe essere il tuo ultimo giorno. Questo è già morire, perché si vive in uno stato di morte.

Sono due brani molto personali perché parlano di me e delle mie esperienze, uno molto intimista e uno che riguarda il contesto in cui ho vissuto.

Qual è l’emozione o il messaggio principale che vorresti assolutamente che arrivasse a chi ascolta il tuo album?

Io penso di essere dal punto di vista musicale molto malinconico e penso che ciò traspaia sia dalla scelta dei brani che dalle sonorità, dalla scelta dei brani e dal mio modo di cantare. Ho una voce molto tonda, con poca high energy. Vorrei che ci fosse una certa eleganza e che si capisse che non ci sono brani scelti a caso, ma che raccontano di me.

Il messaggio deve essere che mi si deve conoscere. Quando canto è uno dei momenti in cui mi sento più adeguato. Mi sento bello, mi sento bene, mi sento giusto con me stesso. Mi voglio presentare alla gente nel miglior modo che di essere me stesso, e lo posso fare cantando. C’è una parte di me. Chi mi conosce mi ritiene solare e mi piace ci sia una dicotomia con la malinconia che traspare dai brani.

Qualche progetto in preparazione per il futuro?

Adesso stiamo lavorando sui live. Questo weekend siamo stati a Cento (BO), dove c’è il nostro studio, per fare le prove per i live. Abbiamo già due date: una l’otto aprile al Jazz Club di Ferrara e il ventiquattro aprile al teatro di Pieve di Cento. Stiamo pensando anche a come possiamo tradurre un disco così complesso in una versione live che sia trasportabile aggiungendo anche altri brani. Spero poi di poter lavorare, in futuro, a tanti brani. Mi piacerebbe anche, un giorno, fare un disco di soli inediti.

a cura di
Annalisa Barbieri

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