La recensione del nuovo album dei The Black Keys, “Ohio Players”
Il dodicesimo album del duo di Akron ci regala un suono ampiamente familiare, ma a riprova che la loro potenza col passare degli anni sta iniziando a standardizzarsi
In “Ohio Players” i The Black Keys vagano nel tentativo di continuare con lo spirito libero che li ha sempre contraddistinti, mantenendo però il sound che li ha resi celebri. É un nobile esperimento che serve anche a sottolineare il fatto che circondarsi di volti nuovi non significa poter sfuggire alla propria immagine riflessa davanti allo specchio ogni mattina.
I The Black keys si rivolgono a diversi amici “di livello”, da Beck a Noel Gallagher fino a Juicy J. L’obiettivo è la ricerca di un suono sciolto e divertente che rifletta una sorta di collaborazione libera, stile jam session. Sulla carta l’idea non sarebbe neanche male, ma i risultati sembrano un po’ sfumati.
All’interno del disco
Realizzare una jam session per dei musicisti è una situazione abbastanza comune e la si ritrova in ogni parte del mondo sia tra i big, sia tra gli artisti emergenti. Ma dato il particolare assembramento di anime creative, l’ascoltatore potrebbe aspettarsi che l’album finisca per essere un minestrone di idee. Pensiero invece smentito dal disco, che risulta piuttosto buono e sottolinea quanto i The Black keys nonostante le influenze riescano ad essere legati alla propria identità musicale.
Troviamo diverse grandi canzoni all’interno, la maggior parte di esse suggerisce l’esperienza della band nel riuscire a far fluire scorrevolmente tante voci esterne. “Paper Crown” è un fantastico brano alla Beck, accentuato dalla voce di Juicy J, mentre “On The Game”, registrata dal vivo con Noel Gallagher a Londra, è una mielosa jam di chitarra. In “Candy and Her Friends” Lil Noid si inserisce a metà per regalare un finale inaspettato, che regala una delle sorprese dell’album.
Il titolo del disco è acuto, facendo riferimento alle radici dei The Black keys ad Akron e, cosa più importante, al leggendario omonimo gruppo funk, che avrebbe potuto cimentarsi coi bassi di “Beautiful People (Stay High)” con risultati pirotecnici. Ma a differenza dello stile dei musicisti dell’Ohio, gli spazi strumentali di gioco sono molto più ridotti.
In conclusione…
Sebbene sia facile distinguere ciò che ogni collaboratore porta in tavola, Ohio Players non è un’opera disgiunta: è coerente come un jukebox curato. Tutto questo merito va ai The lack Keys che, dopo ventitrè anni insieme, si conoscono abbastanza bene da sapere come accentuare i propri punti di forza scegliendo il musicista giusto per la canzone giusta, sicuri di finire con un disco che suona inconfondibilmente come loro stessi.
I The Black Keys potrebbero avere una collezione di dischi strepitosa, ma “Ohio players” è il lavoro di una band che forse è troppo brava ad essere se stessa.
a cura di
Mattia Mancini