“The Mandrake Project”: il ritorno di Bruce Dickinson dopo 19 anni

bruce dickinson, copertina di the mandrake project

Un progetto che si è trascinato nel corso degli anni più di quanto Bruce non avesse mai pensato. Ora, “The Mandrake Project” è disponibile per tutti. Come è il successore di “Tyranny of Souls”?

È giunto il tempo di “The Mandrake Project”. Ci sono voluti un bel po’ di anni, ma ora abbiamo tra le mani il successore di “Tyranny of Souls” (una più che buona prova, invero, con pezzi ignoranti, altri delicati, altri sublimi, altri ancora di mestiere).

Facciamo un breve recap delle vicende: dopo il galante “scippo” da parte di Steve Harris nel 2014 di “If Eternity Should Fail”, brano che Bruce Dickinson aveva quasi ultimato per il suo progetto solista e che poi è diventato opener di “The Book Of Souls” degli Iron Maiden, il cantante inglese ha rivisto un po’ le sue priorità e ha sempre detto di non avere particolare fretta per far uscire un suo nuovo album solista, anche se all’epoca erano già passati quasi 10 anni dall’ultima volta.

Il tempo va, passano le ore gli anni

Va da sé che più passa il tempo, più le idee si accumulano, quelle precedenti cambiano… e in certi casi non si ha voglia di reincidere completamente qualcosa di già pronto. È su queste basi che si muove “The Mandrake Project”, tassello di un progetto che ha più lati, oltre quello musicale (la pubblicazione di una graphic novel nell’arco temporale di più anni). Ma noi qui parliamo di musica, quindi atteniamoci a ciò.

Il ritorno di Bruce Dickinson, dopo 19 anni, è un gradito ritorno, nonostante “Afterglow of Ragnarok” come primo singolo sembrava un po’ confusionario, per quanto d’impatto. Il secondo assaggio “Rain on the Graves” mette un po’ di ordine e una sensazione al sottoscritto: non si andrà molto per sperimentazione, ma si gioca sul classico al meglio delle proprie possibilità.

La copertina di The Mandrake Project di Bruce Dickinson
“‘Sta mano po esse fero e po esse piuma…” “Occhio che c’è un po’ di ruggine”

E tant’è, almeno per buona parte del minutaggio. Alcuni episodi sembrano risalire, per scrittura, a fasi immediatamente successive a “Tyranny of Souls” (“Many doors to Hell”, “Mistress of Mercy”), altri addirittura potremmo ipotizzare essere delle tracce quasi pronte già dai tempi subito successivi al sopracitato album, se non prima (nella bellissima “Shadow of the Gods” e nella conclusiva “Sonata (Immortal Beloved)” Bruce sfoggia una prestazione vocale granitica, energica, calda, con un timbro che però sembra molto simile più all’epoca 2000 che non agli ultimi 10 anni; stesso discorso per il suono di chitarre, molto più vicino a quelle di “Chemical Wedding” e “Tyranny”). Fatto sta che i momenti migliori sono costituiti da “If Eternity Should Fail” “Eternity Has Failed”, la parte centrale di “Resurrection Man”, la grossomodo piacevole “Many Doors To Hell” e il trittico finale.

Il risultato è che “The Mandrake Project”, volente o nolente, può essere considerata un’opera con “Lato A” e “Lato B” distinti, con il secondo ben più riuscito del primo.

Presa di coscienza

Ciò che Dickinson dovrebbe capire, è che il suo canto sulle note non troppo alte è fantastico, roccioso, con un gran lavoro di interpretazione. Insomma, funziona e ha ancora un corpo, una sostanza di prim’ordine. Sugli acuti, sì, riesce ancora a toccare vette lodevoli e notevoli, ma il risultato è un urlo strozzato, forzato. Ed è un peccato, perché “Face in the Mirror”, “Shadow of the Gods” e soprattutto la già citata “Sonata” racchiudono tutto ciò che di buono Bruce Dickinson dovrebbe fare da qualche anno a questa parte e che, forse, avrebbe potuto fare maggiormente in “The Mandrake Project”: giocare meno sulle vette vocali e più sul range vocale leggermente più basso, ma sul quale ha ancora un grandissimo controllo ed estensione.

È per questo, per esempio, che “Afterglow of Ragnarok” non funziona, perché il bridge e il ritornello giocano tutto su vette che 20 anni fa avrebbero funzionato meglio e che ora risultano solo inutili forzature per dimostrare di farccela ancora.

“The Mandrake Project” non è comunque un disco orribile, anzi si lascia ascoltare, ma è un peccato ascoltare alcune ingenuità. “Bruce oramai non deve dimostrare più nulla” dicono alcuni. È vero, è giusto che faccia musica come meglio crede. Ma avere un minimo di consapevolezza in più riguardo le attuali condizioni e capacità, gli aprirebbe un nuovo panorama di soluzioni alle quali, forse, non ha ancora pensato.

a cura di
Andrea Mariano

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