GeneriAmo – Un genere, cinque dischi: il cantautorato italiano anni ’70

cantautorato italiano anni 70

La nostra rubrica sui generi musicali che amiamo oggi parla dei cinque album di cantautorato italiano più importanti degli anni ’70

Se c’è un genere in cui la musica italiana non ha davvero nulla da invidiare al resto del mondo è quello dei cantautori. Per oltre 30 anni, infatti, dalla seconda metà degli anni ’60 fino a fine millennio, il cantautorato italiano è stato in grado di sfornare, uno dietro l’altro, veri e propri capolavori, che hanno fatto da pietre miliari per tutto quello che è venuto dopo, fino ad influenzare profondamente anche la cultura popolare, creando neologismi e modi di dire.

La genesi della parola “cantautore” è incerta, ma nasce a cavallo del 1960 per presentare alcuni nuovi artisti. Così riportava il Corriere d’Informazione dell’1-2 ottobre di quell’anno, una definizione che possiamo considerare valida ancora oggi:

«Sono state gettate le basi della categoria “cantautori”. Cosa vuol dire? È il sogno di alcuni giovani e quotati compositori di canzonette. Vogliono mettersi insieme, unire le ispirazioni e presentare una parata di cantanti-autori, di quelli però che scrivono testi “mica stupidi”, canzoni che abbiano un significato nelle quali cuore non faccia rima con amore. Nel gruppo ci sono Maria Monti, Giorgio Gaber, Gino Paoli, Umberto Bindi e Gianni Meccia (quello che vuole uccidere le vecchie signore)».

Per una parola e un genere appena nato già ci sono nomi importantissimi, come quello di Giorgio Gaber, o dei due capostipiti di quella che verrà definita la “scuola genovese” come Gino Paoli e Umberto Bindi, e di cui faranno parte poi nomi del calibro di Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Fabrizio De André.

In questa prima puntata di approfondimento andremo ad analizzare cinque album del cantautorato italiano degli anni ’70 che hanno segnato in modo profondo la storia della nostra musica.

Iniziamo il nostro viaggio, in rigoroso ordine cronologico.

Fabrizio De André – Non al denaro non all’amore né al cielo (1971)

“Non al denaro non all’amore né al cielo” è il quinto album in studio del cantautore genovese, pubblicato l’11 novembre 1971. Il disco è ispirato da alcune delle poesie che fanno parte dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Si tratta quindi, come quasi sempre nella discografia di De André, di un concept album.

Come Faber ha spesso fatto, e grazie al supporto a 33 giri che aiutava a rendere ancora più marcata la distinzione, i due temi principali dell’album sono divisi tra lato A e lato B: la prima facciata è dedicata all’invidia, la seconda alla scienza.
Sono invidiosi il matto, il giudice e il blasfemo. Lo è anche il malato di cuore, ma la sua morte, arrivata in un impeto d’amore, ci lascia intravedere una possibilità di superare l’invidia.
La stessa cosa possiamo trovarla nel lato B: le ambizioni del medico, del chimico e dell’ottico sono certamente buone, però arrivano ad essere pericolose, per se stessi o anche per gli altri.
Un capitolo a parte lo merita il suonatore Jones, alter ego di De André stesso, che sempre grazie all’amore, stavolta per la musica e per il semplice piacere di suonare, non prestando “mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo”, arriva alla fine della sua vita felice, con “ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto”.

Curiosità finale: gli arrangiamenti dell’album sono stati curati da un giovane Nicola Piovani, alla sua prima prova discografica. Il compositore futuro premio Oscar, allora venticinquenne, si occuperà anche del successivo (bellissimo) album di De André, “Storia di un impiegato”.

Francesco Guccini – Radici (1972)

Tra le figure più importanti del cantautorato italiano non poteva certamente mancare Francesco Guccini, che qui troviamo col suo album più rappresentativo, “Radici”, pubblicato nell’ottobre del 1972.

Questo album rappresenta un vero e proprio spartiacque nella carriera del cantautore, dato che proprio tra i 7 brani di “Radici” c’è “La locomotiva”, canzone-simbolo che racconta l’attentato compiuto dal macchinista anarchico Pietro Rigosi nel 1893 e che ha sempre chiuso i concerti del cantautore, con tutto il pubblico in piedi a cantare in coro e col pugno sinistro alzato e chiuso.

“Radici” è un album che, come suggerisce il titolo, parla di legami profondi, come possono essere quelli col territorio: la canzone che apre il disco e da cui deriva il titolo dell’album è dedicata a Pavana, paese dove i nonni Guccini possedevano un mulino e dove ha passato l’infanzia. “Piccola città” e “Incontro” parlano di Modena, dove il cantautore è nato e ha vissuto i primi tre mesi, salvo poi tornarci dai 5 ai 15 anni, prima di trasferirsi a Bologna.

Dopo “La bambina portoghese”, che contiene una critica a chi vede la politica come una fede impossibile da mettere in discussione (e un riferimento nemmeno troppo velato ai sessantottini), chiude l’album “Il vecchio e il bambino”, come a significare un incontro tra generazioni nuove e passate, ma in un ambiente decisamente irreale. I due si trovano infatti a camminare in un paesaggio post-nucleare, col vecchio che racconta di quando quei luoghi erano coperti di grano, di fiori e di alberi. Quasi desolante arriva la risposta del bambino, nato e cresciuto in un mondo diverso: “Il bimbo ristette, lo sguardo era triste / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio, con voce sognante / mi piaccion le fiabe, raccontane altre.”

Francesco De Gregori – Rimmel (1975)

Un album di inediti che potrebbe essere tranquillamente definito un greatest hits. Stiamo parlando di “Rimmel” di Francesco De Gregori, pubblicato a gennaio del 1975.

Il titolo dell’album è ovviamente preso dalla title-track, ma ha anche un altro significato, come ha spiegato proprio il Principe: «Rimmel come il trucco che usano le ragazze, quello per gli occhi. Rimmel nel senso di trucco, di qualcosa di artefatto. Ma questo disco è fatto per smascherarli, per metterli in evidenza. Almeno queste sono le intenzioni».

Come dicevamo, l’album presenta una serie di brani incredibili, partendo proprio da “Rimmel” e continuando subito con “Pezzi di vetro”, uno dei brani più poetici ed intensi dell’intera discografia degregoriana. Proseguendo nell’ascolto troviamo poi altri due capolavori come “Pablo” e “Buonanotte fiorellino”.
Per la parte delle curiosità merita due parole in più “Le storie di ieri”. La canzone fu scritta da De Gregori nel 1974 in Gallura, a casa di Fabrizio De André, durante le sessioni che hanno portato a “Volume 8” di Faber. La sua pubblicazione era prevista nel precedente disco del cantautore genovese, quello ribattezzato “della pecora” per via della copertina, ma fu censurata e scartata dalla casa discografica.
Proprio a causa di questa censura Faber decise di inciderla lui e inserirla in “Volume 8”.
Rispetto alla prima stesura del brano, la versione di De André è lievemente diversa, così come sono ancora diverse le parole del testo della versione presente in “Rimmel”, dove sparisce del tutto il riferimento diretto a Giorgio Almirante che aveva causato la prima censura.

Per rendere l’idea del successo di “Rimmel”, rimane in classifica per 60 settimane consecutive, risultando il disco più venduto del 1975, con oltre 400.000 copie.

Edoardo Bennato – Burattino senza fili (1977)

Siamo nel 1977 e sul mercato arriva un album destinato a lasciare il segno, ovvero “Burattino senza fili”, quinto album in studio di Edoardo Bennato.
Il filo conduttore dietro il concept album è semplice, ma di grande effetto: rielaborare la celebre favola di Collodi, usandola come metafora per descrivere la società moderna. Il disco mette in scena una metafora del potere, che impone la propria cultura e il proprio concetto di normalità, opprimendo chi cerca di allontanarsi per cercare una propria via. Di conseguenza i personaggi collodiani vengono tutti reinterpretati in funzione del tema generale dell’album.

Pinocchio che vuole diventare a tutti i costi umano (“È stata tua la colpa”), rappresenta quindi la rinuncia alla propria natura e ai valori della cultura predominante, per cercare di vivere la vita a proprio modo, salvo appunto scontrarsi con tutte le varie emanazioni del potere che cercano di ostacolarlo o manipolarlo, come il gatto e la volpe.

Nel disco troviamo canzoni meravigliose e delicate come “La fata”, forse uno dei primi brani in assoluto nella storia della musica italiana a parlare di violenza sulle donne. Oppure pezzi caustici come “In prigione in prigione”, feroce critica di un sistema giudiziario corrotto. Fino alla chiusura con “Quando sarai grande”, ultimo tentativo del potere di tenere buone le masse: non bisogna sognare, solo studiare e non fare troppe domande, poi quando si diventa grandi si capirà perchè. Un modo per imparare a crescere generazioni di adulti asserviti al potere.

Il successo è enorme, l’album vende oltre un milione di copie, risultando il disco più venduto del 1977 e, insieme al successivo “Sono solo canzonette”, aprirà a Bennato le porte dello Stadio San Siro, primo italiano di sempre a portare 80.000 persone nell’impianto milanese.

Lucio Dalla – Lucio Dalla (1978)

Che dire di un album incredibile come quello omonimo del 1978 di Lucio Dalla?
Un concentrato di successi senza tempo che lo mettono di diritto tra gli album più belli di sempre della storia della musica italiana e ne fanno al tempo stesso un disco fondamentale dell’intero cantautorato italiano.

Dopo “Come è profondo il mare”, uscito l’anno prima, è il secondo album in cui il cantautore bolognese si cimenta anche con la scrittura dei testi, sfornando capolavori come “Stella di mare”, “Anna e Marco”, “Milano”, “Cosa sarà” (in coppia con De Gregori), e ovviamente la celeberrima “L’anno che verrà”.

C’è davvero poco altro da dire per un album che tutti dovrebbero ascoltare almeno una volta nella vita. Se non altro per scoprire anche quelle perle nascoste come la bellissima “Tango”. O anche solo per spingere play a inizio disco e sbloccarsi un ricordo: “L’ultima Luna”, infatti è la canzone che accompagna i titoli di testa di “Borotalco”, film capolavoro di Carlo Verdone di qualche anno dopo, in cui la figura di Lucio Dalla è centrale all’interno della pellicola.

Di grande apporto per il suono dell’album la presenza della band di Dalla: Giovanni Pezzoli alla batteria, Marco Nanni al basso, Ricky Portera alle chitarre. Esatto, proprio quel gruppo che da lì a 4 anni, con l’arrivo di Fabio Liberatori e Gaetano Curreri, diventerà gli Stadio.
Ultima curiosità: tutte le chitarre acustiche del disco sono suonate da Ron, che ha scritto anche la musica di “Cosa sarà”.

Nemmeno a dirlo, il successo del disco è clamoroso, con oltre 500.000 copie vendute solamente nei primi sei mesi in commercio. Un album che deve essere obbligatoriamente presente in ogni collezione di dischi casalinga che si rispetti.

a cura di
Andrea Giovannetti

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